Sono abbastanza sensibile ai cambiamenti di letto e questo in particolare è troppo morbido per me, così durante la notte mi sono svegliata diverse volte, in una luminosità via via crescente: non avevamo tirato le tende oscuranti, perché la luce in camera da letto non ci dà fastidio, anzi a me piace, e già quando siamo andati a dormire un vago chiarore preannunciava l’alba precoce dell’estate nordica.
Avevo puntato la sveglia alle 9, per avere il tempo di fare colazione con calma e prendere il bus navetta delle 10:30 per il centro città.
Reykjavík ci saluta con una splendida giornata di sole, un vero colpo di fortuna nella piovosa estate islandese, che ci permette di apprezzare la vista dalla vetrata dell’hotel, con l’aiuto di una guida grafica che riporta i nomi dei principali elementi del panorama.
Il buffet della colazione è pantagruelico, c’è davvero di tutto, dalle cose più tradizionali (tè, caffè, latte, yogurt, cereali, brioches, succhi di frutta, marmellate) a quelle più insolite (salmone affumicato, pesce marinato, olive ripiene, pomodori gratinati, fagioli in umido).
Al primo passaggio riempiamo i piatti di cose salate: uova strapazzate e bacon croccante, pane, affettati, formaggio e pomodoro, riservandoci di fare un altro giro se nello stomaco resterà ancora un angolino da riempire; le nostre colazioni da vacanza sono sempre abbondanti, perché di solito poi saltiamo il pranzo, ma siamo molto attenti a non mettere nel piatto più di quanto pensiamo di poter mangiare. Sprecare il cibo è una cosa inammissibile e non importa che sia “già pagato”, come talvolta sentiamo dire da altri turisti per giustificare i piatti quasi pieni abbandonati sul tavolo: meglio prendere poche cose per volta e poi tornare a riempire il piatto, tanto il buffet non scappa.
Preferisco evitare i succhi di frutta, che potrebbero favorire i bruciori di stomaco di cui soffro con una certa frequenza da quando mi sono ammalata la prima volta, quindi provo ad assaggiare l’acqua, con una certa diffidenza, perché spesso quella erogata dai distributori degli hotel è pessima. Scopro invece con sollievo che è davvero buona, ottimo accompagnamento per la mia colazione, e rinuncio anche a latte e tè. Il secondo giro al buffet porta nel mio piatto un pancake con sciroppo d’acero, un pezzo di banana, mezza pera sciroppata e un biscotto (qualcuno pensava che esagerassi quando ho detto che le mie colazioni da vacanza sono molto abbondanti?), poi risaliamo in camera a prepararci per uscire in esplorazione della città.
Mi aspettavo che il minibus raggiungesse il centro per la via più diretta, basterebbe percorrere fino in fondo la strada in cui si trova l’hotel, invece segue un percorso tortuoso e ci lascia sulle rive del laghetto Tjörnin, pieno di papere, oche, gabbiani ed altri uccelli che aspettano le briciole dai passanti.
In riva al lago c’è il municipio, un edificio ultramoderno, interessante solo perché all’interno c’è un plastico tridimensionale di tutta l’Islanda.
Non faccio in tempo a rallegrarmi di aver trovato la stanza del plastico deserta: subito dopo di noi entrano alcuni gruppi di turisti che si affollano intorno alla mappa tridimensionale. Provo ad aspettare un po’ per riuscire a fare una foto, ma il momento fortunato ormai è passato e intorno al plastico c’è un continuo via vai di persone. Un po’ a malincuore, mi rassegno a rinunciare e proprio sopra l’uscita ci imbattiamo in un gabbiano intento a fare la doccia.
Lasciato il municipio, pascoliamo per le vie del centro partendo da Austurvöllur, una piazza-giardino quasi interamente coperta da aiole e prati su cui si accomodano a prendere il sole numerosi turisti e abitanti locali; sulla piazza si affacciano l’Alþingi, la sede del Parlamento Islandese e la cattedrale Dómkirkja, la più antica chiesa della città, per la verità piuttosto piccola per essere una cattedrale, ma molto graziosa nella sua luterana semplicità.
A poca distanza c’è piazza Ingólfstorg e sono molto curiosa di vedere il soffione geotermico di cui parla la guida: mi aspettavo una specie di geyser, invece sono due colonne di pietra con due tubi da cui esce poco più di un filo di vapore. La piazza però è un ottimo punto per il boy-watching, l’osservazione dei giovani di Reykjavík: è il principale ritrovo di adolescenti e ragazzi, soprattutto gli appassionati di skateboard, e non è raro trovare qualche gruppo che suona dal vivo sulla terrazza del bar in cima alla scalinata.
Una piccola deviazione all’ufficio informazioni per raccogliere un po’ di materiale illustrativo, poi ci avviamo lungo Austurstræti e Bankstræti, le strade più animate della città, ricche di negozi e locali che le rendono il centro della vita sociale di Reykjavík: probabilmente il famoso “runtur”, il giro serale di bevute da un locale all’altro, si svolge proprio qui, ma è un tipo di divertimento – ammesso che ci sia qualcosa di divertente nel riempirsi di alcol fino a stordirsi – che non mi attira minimamente.
Basta un’occhiata ai negozi di souvenir per identificare il simbolo dell’Islanda: cartoline, statuette, peluches, magliette… l’immagine dei pulcinella di mare è dovunque. E la scritta sulla vetrata di un negozio riassume efficacemente l’importanza che gli Islandesi attribuiscono a questo simpatico volatile.
Ci fermiamo ad uno sportello bancomat per prelevare un po’ di valuta locale: non dovrebbero servirci molti contanti, perché ho già pagato diverse cose al momento della prenotazione e da quello che abbiamo letto le carte di credito sono accettate ovunque, ma preferiamo avere un po’ di corone per le piccole spese.
Deviamo verso destra, lungo Skólavörðustígur, per raggiungere la mastodontica chiesa Hallgrímskirkja.
La strada è in leggera salita e devo affrontarla lentamente, ho qualche difficoltà a sollevare la gamba destra e i dislivelli mi risultano particolarmente faticosi, ma non abbiamo fretta, possiamo procedere con calma e troviamo il tempo per fraternizzare con una cordialissima abitante locale.
Purtroppo Hallgrímskirkja è avvolta da impalcature e non possiamo apprezzarne adeguatamente l’insolita architettura, ma l’interno è accessibile e possiamo ammirare la struttura slanciata della navata e l’enorme organo, con più di 5000 canne.
Restiamo un attimo titubanti di fronte alla possibilità di salire sulla torre campanaria: non abbiamo ancora memorizzato il rapporto cambio tra corona ed euro e ci sembra che il prezzo di 400 corone sia eccessivo. Per fortuna decidiamo di ricontrollare e scopriamo di aver dimenticato uno zero, in realtà il biglietto costa circa due euro, non venti come avevamo pensato inizialmente. Con lo stesso ragionamento, ci rendiamo conto di aver prelevato dal bancomat più o meno l’equivalente di 12 euro invece del centinaio che avevamo in mente: ci ridiamo sopra, meno male che non abbiamo commissioni sul prelievo!
La vista dalla torre è spettacolare, ma purtroppo pesantemente condizionata dalle impalcature che avvolgono tutta la struttura e ostruiscono la visuale in più punti.
Le campane suonano mezzogiorno, è ora di scendere per tornare verso il centro, dove ci attende appuntamento più importante della giornata.
Usciti dalla chiesa, ci fermiamo a dare un’occhiata alla statua di Leifur Eriksson, che raggiunse l’America cinquecento anni prima di Cristoforo Colombo.
Scendiamo lungo Skólavörðustígur, osservando gli edifici: come già in altri viaggi nei Paesi del nord mi colpisce il grande utilizzo di lamiera ondulata, materiale dall’aspetto non particolarmente gradevole e – credo – anche dalla limitata capacità di isolamento termico; ma forse è soltanto un rivestimento esterno che evita a neve e ghiaccio di attaccarsi ai tetti e alle pareti degli edifici.
Andando verso il porto ci fermiamo di nuovo al bancomat, questa volta preleviamo la cifra giusta e questo sarà il nostro ultimo prelievo di valuta locale: scopriremo presto che non solo si può pagare con la carta di credito ovunque (e intendo dire proprio dappertutto, anche in mezzo al nulla), ma che a differenza di quanto accade in Italia, viene accettata tranquillamente anche per cifre minime, addirittura abbiamo visto una persona utilizzarla per pagare un pacchetto di sigarette.
Orientandomi con la cartina trovo la strada per il porto e subito un cartello ci indirizza verso la nostra destinazione.
Al gabbiotto dei biglietti consegno la stampa della prenotazione fatta via Internet; il ragazzo addetto alla vendita non riesce a pronunciare il mio cognome, ma trova la prenotazione sul suo registro e mi consegna i biglietti per l’escursione delle 13.
La barca si trova in fondo al molo, ancorata di fianco ad un’altra che funge da caffè e negozio di souvenir. Saliti a bordo, prendiamo posto sui sedili vicino ad un gruppo di giapponesi, a cui non abbiamo niente da invidiare, armati come siamo di due macchine fotografiche, una reflex e una compatta, e una videocamera ad alta risoluzione.
Il mare è calmissimo, liscio come l’olio (ma per precauzione a mezzogiorno ho preso comunque la Xamamina): uscendo dal porto, avvistiamo un lussuoso yacht e ci chiediamo a chi appartiene. Nel porto di Copenhagen, qualche anno fa, abbiamo visto lo yacht di Bill Gates: si vede che i ricconi hanno i nostri stessi gusti in fatto di vacanze…
Poco fuori dal porto ci avviciniamo ad Akurey, un isolotto che nella stagione estiva ospita i pulcinella di mare per il periodo della riproduzione.
Questi uccelli che volano in modo buffissimo ma sono ottimi nuotatori, vivono in mare per la maggior parte dell'anno e vengono sulla terraferma solo per il tempo necessario a deporre le uova e far crescere i piccoli fino a che sono in grado di volare da soli. Ormai la stagione della nidificazione è quasi finita, le scogliere non sono affollate come a giugno, ma riusciamo comunque a vedere diversi esemplari, oltre a un buon numero di gabbiani ed altri uccelli marini.
Ci innamoriamo immediatamente di questi simpatici uccelli, che in islandese si chiamano Lundi; noi però abbiamo deciso che il nome che più si addice loro è la versione inglese, Puffin, e li chiameremo sempre così.
Dopo aver ammirato le evoluzioni dei puffin, ci allontaniamo dall’isola spostandoci verso il largo, seguiti da alcuni gabbiani.
Aguzzo la vista in ogni direzione, attenta a cogliere ogni movimento, ma non so bene cosa cercare. Nei siti web e nei depliant degli operatori che organizzano escursioni di whale watching si vedono megattere che saltano fuori dall’acqua a pochi metri di distanza dalle barche ed enormi code che sbucano dalle onde, ma è chiaro che nella pubblicità si mostrano solo i casi migliori, probabilmente noi dovremo accontentarci di molto meno, ammesso che siamo comunque abbastanza fortunati da avvistare qualcosa.
La barca di un altro operatore di whale watching è uscita dal porto quasi contemporaneamente a noi e abbiamo seguito la stessa rotta fino all’isolotto di Akurey, poi ci siamo allontanati in direzioni diverse: chissà chi avrà più fortuna?
Appena ci allontaniamo da terra benedico la prudenza che mi ha fatto mettere nello zaino berretti, sciarpa e guanti: anche se la giornata è bellissima e a terra la temperatura era gradevole, in mare tira un vento molto freddo e compatisco – ma giudico anche un po’ sciocche – alcune ragazze che hanno affrontato l’escursione solo con pantaloni al ginocchio, sandali e maglietta a maniche corte.
Un paio di volte ho l’impressione di scorgere qualcosa, ma sono movimenti troppo brevi e troppo lontani per capire di cosa si tratta. Il mare calmissimo è comunque già uno spettacolo di per sé e penso che questo splendido panorama e i puffin che continuiamo ad avvistare dalla barca siano da soli quasi sufficienti a giustificare la spesa dell’escursione.
Dopo meno di dieci minuti la voce della guida dall’altoparlante, in inglese, ci informa che il sonar ha rilevato una minke whale che sta mangiando a poca distanza da noi; si tratta della balenottera minore, come ho imparato da un manifesto appeso all’interno della barca che riporta i nomi delle balene in varie lingue, una specie relativamente piccola (7-10 metri) molto comune in queste zone.
Il capitano dirige la barca da quella parte ed ecco in lontananza un dorso scuro che emerge e si rituffa: un’emozione straordinaria!
Ecco, penso, ora il successo dell’escursione è completo.
Ma è solo l’inizio.
Da quel momento è un susseguirsi di avvistamenti: la guida segnala le zone in cui sono presenti le balene, utilizzando la convenzione dell’orologio. Whale at five o’clock! Look at eleven o’clock! E tutti si precipitano a guardare nella direzione indicata.
La guida spiega che per trovare le balene è utile seguire gli uccelli: dove si raggruppano in gran numero c’è abbondanza di pesce ed è probabile trovare altri predatori. E proprio seguendo gli uccelli avvistiamo anche un piccolo gruppo di delfini.
Purtroppo nessuna emersione spettacolare, la stagione degli amori delle megattere è finita e ci dobbiamo accontentare (si fa per dire!) di dorsi e pinne, nemmeno una coda, ma gli avvistamenti sono numerosi, alcuni a poche decine di metri dalla barca.
Il tempo vola, è ora di dirigere la prua di nuovo verso il porto. Salutiamo le balene di Reykjavík con un sentimento molto vicino alla commozione, grati per aver potuto assistere a questo straordinario spettacolo della natura.
Tornati a terra, dato che mancano ancora diverse ore alla cena, optiamo per uno spuntino.
Renato è attratto da un cartello che pubblicizza fish & chips a due passi dalla piazza Ingólfstorg, ma io non ho voglia di frittura e i prezzi di questo locale non mi sembrano particolarmente buoni, quindi diamo un’occhiata in giro, per valutare altre offerte; ormai però Renato si è ingolosito e io comincio ad essere stanca: sulla barca sono rimasta quasi sempre in piedi per guardare le balene e ora ho voglia di sedermi, così alla fine torniamo dai fish & chips, dove io mi lascio tentare dal kebab.
Ci accomodiamo al tavolo e mentre aspettiamo i nostri piatti mi guardo intorno e scopro una cosa molto interessante. Io bevo tantissima acqua naturale, mai alcolici e molto raramente bibite, ma dopo aver visto i costi delle bottiglie di acqua in Danimarca e in Norvegia ero un po’ preoccupata, temevo un salasso anche qui.
A Copenhagen, dopo esserci svenati per alcuni giorni con le bottiglie di acqua minerale a 3 euro per mezzo litro, avevamo scoperto che bastava chiedere “ice water” per avere una brocca di acqua di rubinetto, buona e assolutamente gratuita, quindi prima di partire avevo chiesto ai frequentatori del forum http://www.islanda.it/ se anche in Islanda ci fosse la stessa possibilità e mi avevano risposto che l’acqua si trovava liberamente in tutti i locali. Proprio così: c’è una brocca a disposizione e ci si può servire da soli: ottimo!
Dopo aver consumato lo spuntino, decidiamo di toglierci subito il pensiero di cartoline e francobolli: non dobbiamo comprarne molte, la maggior parte degli amici riceverà una cartolina elettronica via mail, dato che ho con me il netbook, ma ne serve qualcuna nel tradizionale formato cartaceo per chi non utilizza la posta elettronica.
Ripercorriamo Austurstræti fino a trovare qualche buona immagine a prezzi ragionevoli, poi ci infiliamo nell’ufficio postale appena un paio di minuti prima della chiusura per i francobolli, infine torniamo verso il Tjörnin e i suoi uccelli.
Una decina di minuti di attesa, poi arriva la navetta ci riporta in hotel: solo il tempo per una doccia e per indossare gli abiti più eleganti che abbiamo (forse è più corretto dire “i meno sportivi”, dato che non si tratta certo di vestiti da cerimonia!), poi riprendiamo il minibus verso il centro perché ci aspetta un’altra esperienza che ci auguriamo indimenticabile, la cena al Sjávarkjallarinn, il più rinomato ristorante d’Islanda.
La guida Lonely Planet raccomandava di non perdere questa occasione, se se ne ha la possibilità, e noi abbiamo deciso di concederci questo sfizio.
Iniziano bene portando una bottiglia di acqua naturale, una conferma che questa buona abitudine islandese è estesa anche ai locali più prestigiosi, mentre i vini sono ovunque piuttosto cari… motivo in più per evitare gli alcolici!
Subito dopo arrivano un paio di deliziosi stuzzichini offerti dallo chef: fettine di pane da immergere prima in una salsa a base di mango, anice e qualcos’altro che non sono riuscita a identificare e poi in un trito di pistacchi, mandorle e altra frutta secca e poi un assaggio di tartare di pesce avvolta in foglie di bambù: straordinari.
Dopo un’occhiata al menu, rimpiango di aver ceduto allo spuntino pomeridiano: se mi fossi conservata tutta la fame per la cena, avrei scelto il menu degustazione, ma temo che la selezione dello chef sia troppo ricca, così ordiniamo alla carta.
Come antipasto, io scego la “zebra black n’white”, fettine tenerissime di carne marinata alternate a bocconcini di formaggio aromatizzato e bacche di ribes, con piccoli cristalli di zucchero, salsa di ribes e olio di mandorle; Renato invece opta per un sushi con tonno, pesce spada, salmone ed altri pesci.
Il mio piatto principale è il “monkfish coke joke”, filetti di rana pescatrice serviti su una sfoglia ai carciofi e accompagnati da bocconcini di gamberoni e salsa al tartufo; per Renato “lobster classic”, che non è l’aragosta intera come pensavamo, ma un’enorme porzione di code di aragosta con salsa all’aglio, talmente abbondante che nonostante lui sia decisamente una buona forchetta, fatica a finirla.
Saremmo anche pieni, ma come resistere alla lista dei dolci? Tortino al cioccolato “hot lava”, con l’interno di cioccolato caldo e guarnizione di banane e ananas in salsa di papaya e soufflé al cioccolato con sorbetto alla fragola e mousse al timo.
Il conto non è leggero, poco più di cinquantacinque euro a testa, ma rapportato alla qualità della cena, una vera e propria estasi per la gola e per gli occhi, è ragionevole: dobbiamo davvero concordare con la guida Lonely Planet: se si può, è un’esperienza da non perdere!
Ormai è troppo tardi per la navetta dell’hotel e decidiamo di tornare in albergo a piedi. Per fortuna ho messo il piumino: la giornata è stata decisamente tiepida, ma la sera è fresca.
Ripercorriamo Austurstræti e Bankstræti, poi imbocchiamo Laugavegur in una passeggiata assolutamente tranquilla: nemmeno per un attimo ci sentiamo a disagio camminando di notte per le strade di Reykjavík.
Anche mercoledì mattina ci svegliamo con calma dopo le nove e dopo la solita abbondante colazione usciamo dall’hotel e ci avviciniamo al bus navetta: non siamo diretti in centro, ma la nostra destinazione è vicina all’altro hotel servito dallo stesso minibus, così ho deciso di provare a chiedere all’autista se possiamo scendere all’altro capolinea; sembra un po’ sorpreso dalla mia richiesta, ma accetta.
Il Perlan è un edificio dalla curiosa architettura, formato da cilindri affiancati e sormontato da una cupola in vetro ispirata proprio ad una perla, da cui il nome. Si trova su di una collina vicino all’aeroporto cittadino ed è proprio ai piedi di questa collina che ci lascia il minibus.
Risaliamo a piedi uno dei tanti sentieri che avvolgono come una ragnatela la collina Öskjuhlid, in mezzo alla vegetazione: parlare di alberi in Islanda è quasi sempre eccessivo, ce ne sono davvero pochi, per lo più sono solo cespugli.
Raggiunta la cima della collina, entriamo nell’edificio e saliamo subito sulla terrazza che circonda la cupola.
La giornata non è soleggiata e serena come quella di ieri, ma il panorama di Reykjavík e dei dintorni, fino al monte Esja, è comunque notevole.
Tornati al piano terra prendiamo i biglietti e le audioguide per il Museo delle Saghe, in cui sono ricostruite molto fedelmente alcune scene della storia e delle leggende islandesi, con manichini a grandezza naturale realizzati utilizzando come modelli alcuni abitanti di Reykjavík, e riproduzioni accurate di ambienti, abiti, utensili ed accessori d’epoca.
Terminata la visita, prendiamo un altro sentiero per scendere dalla collina e circa a metà strada incontriamo un simpatico abitante del luogo impegnato in un picnic, per nulla disturbato dal nostro passaggio.
Sono quasi le 13, è ora di andare a ritirare l’auto che sarà nostra fedele compagna di viaggio per i prossimi giorni; sbrighiamo velocemente le formalità con l’autonoleggio e prendiamo possesso del veicolo.
La destinazione del pomeriggio è la penisola di Reykjanes: ci dirigiamo verso ovest, ripercorrendo a ritroso la strada verso l’aeroporto: il paesaggio che ci era sembrato lunare durante il trasferimento notturno, alla luce del sole appare ancora più strano: nessun albero, pochissima vegetazione, soprattutto cumuli di rocce laviche ricoperti di licheni, rappresentanti di una vita ostinata, che conquista anche gli ambienti più inospitali.
Superiamo alcuni paesini assolutamente minuscoli, meno di dieci case in tutto, e prima di raggiungere l'aeroporto svoltiamo verso Hafnir, raggiungendo la costa.
Alcuni chilometri più avanti ecco il "ponte tra i continenti", un nome altisonante per una struttura nata esclusivamente come attrazione turistica, un ponticello costruito sulla faglia che divide la zolla tettonica americana da quella euroasiatica.
Una breve sosta per le foto di rito, poi proseguiamo verso la destinazione clou della giornata.
Né le descrizioni né le fotografie ci avevano davvero preparato alla visione della Laguna Blu, un complesso geotermale costituito da un'enorme piscina naturale circondata da rocce laviche e piena di acqua calda e opalescente che sembra latte azzurro, un colore dato dalla particolare combinazione di alghe e sali minerali che contiene.
Il biglietto d’ingresso non è certo economico, 23 euro, ma la struttura si presenta benissimo: all’ingresso ci consegnano un braccialetto elettronico che servirà non soltanto per superare i tornelli ed aprire gli armadietti, ma anche per pagare eventuali consumazioni al bar.
Non abbiamo bisogno di noleggiare costumi né accappatoi, abbiamo portato tutto da casa e passiamo immediatamente negli spogliatoi.
Dalla guida abbiamo imparato una regola importantissima: in Islanda si fa una doccia completa, senza costume, prima di entrare in piscina, per motivi igienici, dato che l’acqua non contiene additivi chimici per la disinfezione. I locali doccia sono dotati di dispenser di doccia-shampoo e balsamo per capelli, che sarà molto utile all’uscita, dato che i sali minerali contenuti nell’acqua sono un toccasana per la pelle, ma lasciano i capelli molto secchi.
Indossati costumi ed accappatoi, ci ritroviamo all’esterno, pronti ad affrontare questa nuova esperienza che si preannuncia davvero interessante.
Il primo contatto con l’acqua è piacevolissimo, la temperatura è di circa 40°, anche se esplorando la piscina scopriamo che in alcune zone l’acqua è così calda da non potersi fermare nemmeno per pochi minuti: l’acqua proviene da sorgenti sotterranee bollenti e viene mescolata con acqua più fresca per portarla ad una temperatura sopportabile.
In diversi punti lungo i bordi della piscina sono stati ricavati sedili che permettono di restare comodamente a mollo tenendo solo la testa fuori dall’acqua; la forte presenza di silice ha creato depositi vetrosi su tutte le superfici a contatto con l’acqua, e le rocce sono rivestite di uno strato liscio e lucido che evita il rischio di graffiarsi.
Guardandoci intorno vediamo diverse persone il viso spalmato di una sostanza chiara: ci chiediamo se sia un trattamento a pagamento della SPA, ma proseguendo con l’esplorazione raggiungiamo alcuni bidoni da cui è possibile prelevare liberamente questo fango bianco per spalmarlo sulla faccia e naturalmente procediamo con l’operazione: la maschera di fango ha un effetto levigante, lascia la pelle morbidissima.
Dopo aver compiuto un giro quasi completo, raggiungiamo la zona della SPA, dove, pagando un supplemento, è possibile godere di un massaggio rilassante restando distesi su materassini a pelo d’acqua. Probabilmente sarebbe una bella esperienza, ma ci accontentiamo di farci massaggiare la schiena e le spalle – gratuitamente – dal getto poderoso di una piccola cascata.
Complessivamente rimaniamo nell’acqua per circa un'ora e mezza, un'esperienza così rilassante da rischiare di addormentarsi, ma arriva il momento di uscire, dobbiamo rientrare a Reykjavík per la cena e sulla strada del ritorno è prevista ancora una sosta.
Prima di lasciare il complesso termale attraversiamo il negozio di souvenir e prodotti cosmetici, ma ci sembra tutto eccessivamente caro, quindi portiamo con noi solo il ricordo di questo posto straordinario.
Tornando verso Reykjavík facciamo una breve sosta ad Hafnarfjörður, un paese in cui, secondo le leggende, vivono molti rappresentanti del "popolo nascosto", elfi, fate e folletti, in particolare nelle grotte del piccolo parco che si trova nel centro. Il parco è grazioso e ci sono alcune grotte e fenditure nella roccia, ma non avvistiamo esserini fatati... forse siamo semplicemente troppo stanchi!
Per cena ci viziamo di nuovo, con il menù dello chef del Vox, il ristorante del nostro hotel, che propone una cucina basata esclusivamente su ingredienti dei Paesi nordici: scampi islandesi con pomodorini svedesi, maialino da latte con salsa di mele, filetto di manzo islandese con verdure (per Renato) e salmerino artico con verdure (per me), per finire con un dessert di fragole islandesi rosse e verdi con sorbetto.
Poi a nanna presto, perchè domani ci aspetta un'esperienza impegnativa...
(tutte le foto di questo post sono state fatte da me ad eccezione di quelle dei piatti del Sjávarkjallarinn, che ho trovato su Flickr)
Meraviglioso racconto.
RispondiEliminaAnche io e la mia ragazza siamo stati in Islanda.
Al ritorno della vacanza abbiamo deciso di aprire un sito interamente dedicato a questa fantastica isola : http://www.viaggioinislanda.it.
Abbiamo voluto raccontare questa meravigliosa terra a tutti coloro che vogliono organizzarsi un viaggio.
A presto. Maurizio e Giusy
ci sto per andare e ho apprezzato il tuo bel diario di viaggi. Un saluto
RispondiEliminaAndrea
Che belle foto!!!Viene voglia di andare a visitare quei bellissimi luoghi.....Ciao da ARCOBALENO
RispondiElimina