domenica 20 settembre 2009

Il ministro Brunetta e i musicisti

Interrompo il resoconto della vacanza islandese per una digressione su di un argomento che mi ha particolarmente incuriosita.
Da qualche giorno girano su Youtube alcuni video che riportano parti il discorso tenuto a Gubbio dal ministro Brunetta l'undici settembre scorso.
Non voglio entrare nel merito di tutti gli argomenti affrontati dal ministro in quel contesto, ma c’è una parte in particolare che sembra aver suscitato le ire del popolo della rete.

Il primo link che ho incontrato al video del famigerato discorso mi ha molto incuriosita: il titolo era “Cosa sono i musicisti per Brunetta” sottotitolo “Brunetta è matto”.
La prima visione del video mi ha lasciata perplessa, non trovavo corrispondenza tra il titolo e i contenuti del discorso. Allora sono andata a leggere qualche commento sull’argomento, spulciando qua e là in rete, e sono rimasta sorpresa dall’enorme quantità di critiche espresse soprattutto da persone che operano proprio in ambito musicale. Quasi tutti accusavano il ministro di aver classificato tutti i musicisti come fannulloni, invitandoli ad “andare a lavorare”.

Eppure a me non sembrava che il contenuto del discorso fosse questo: forse avevo capito male?
Nel primo video che avevo guardato c’era un taglio molto evidente: ho pensato che forse le accuse di poltroneria ai musicisti potessero essere nella parte eliminata e ho cercato una versione integrale. Ho trovato un video più completo, anche se non posso garantire che sia integrale, ma anche in quello non sono riuscita a capire perché i musicisti dovrebbero avercela con Brunetta.

Il ministro si è scagliato – pesantemente – solo contro gli operatori dello spettacolo che ricevono finanziamenti pubblici attraverso il Fondo Unico per lo Spettacolo, in particolare il mondo della lirica, che quest’anno riceve dallo Stato 199 milioni di euro, e del cinema, a cui vanno oltre 69 milioni di euro; il resto è suddiviso tra prosa (61 milioni), altre attività musicali (51 milioni), danza, attività circensi e Osservatorio dello spettacolo (qualunque cosa sia), per un totale di 397 MILIONI di euro nel 2009 (fonte Ministero dei Beni Culturali).
Secondo quello che ho capito io, nel suo discorso, Brunetta sostanzialmente plaude al taglio di questi fondi pubblici (significa che prima erano ancora più consistenti? accidenti...), accusando i principali destinatari, lirica e cinema, di vivere sulle spalle dei contribuenti ed invitandoli a guadagnarsi da vivere confrontandosi con il mercato, invece di farsi mantenere dallo Stato.
Cosa c’è di scandaloso in questo?

Io penso che non si possa considerare lo spettacolo come concetto fine a se stesso: lo spettacolo si fa per il pubblico e allo stesso modo di qualsiasi altra forma di espressione artistica o culturale, ha un senso solo se interessa e piace a qualcuno.
Quindi, se al pubblico lo spettacolo non interessa – o interessa poco – non c’è motivo di farlo e men che meno di finanziarlo con il denaro dei contribuenti. Se invece ci sono persone disposte a pagare per assistervi, non c’è bisogno di sostenerlo con fondi statali.
Chi produce spettacolo, dovrebbe mantenersi con i proventi di ciò che realizza, oppure trovare un’altra occupazione e dedicarsi allo spettacolo come hobby: chi riesce a realizzare forme di intrattenimento gradite al pubblico potrà farlo come mestiere, gli altri no.

In Italia ci sono migliaia di musicisti, attori, registi, ballerini, scenografi… artisti seri, spesso validissimi, che non hanno mai ricevuto un centesimo dallo Stato e che in alcuni casi riescono a fare della loro arte una professione, ma più spesso lavorano come operai, impiegati, commercianti, insegnanti... e si dedicano alla musica, al teatro o alla danza nel tempo libero.
Mi pare che non sia certo a loro che sono rivolte le critiche del ministro Brunetta, che al contrario ha messo sotto accusa chi riceve denaro dallo Stato per realizzare “prodotti” che non hanno mercato, citando invece come esempi positivi quelli che fanno affidamento solo sul proprio talento e sul proprio lavoro.

In questo sono pienamente d'accordo con Brunetta.
Perché alcune categorie dovrebbero essere sostenute con denaro pubblico mentre tanti altri si devono arrangiare? Perché lo Stato mantiene i teatri lirici e non, per fare un esempio, i gruppi rock?
Forse perché la musica classica, la lirica ed il teatro vengono considerati “cultura”, manifestazioni con una dignità artistica superiore rispetto ad altre.
Ma chi decide che cosa è spettacolo, arte, cultura?
I critici? Gli intellettuali? Gli "esperti"? Gli organizzatori di premi letterari e festival cinematografici, spesso ridotti a passerelle autoreferenziali in cui sempre gli stessi “addetti ai lavori” si presentano di volta in volta in giuria oppure in concorso? La loro opinione vale quanto quella di chiunque altro.
Non può esistere un criterio di valutazione universale per concetti che sono per loro natura soggettivi e variabili nel tempo, quindi non si può definire in senso assoluto cosa sia arte, spettacolo, cultura e cosa invece non lo sia.

Io penso che lo spettacolo dovrebbe mantenersi da solo, senza essere viziato da forme di protezionismo e privilegi.
È giusto che lo Stato favorisca le attività culturali, non in modo settario, finanziandone soltanto alcune, ma promuovendo la conoscenza delle diverse forme espressive, a partire dalle scuole. Trovo ad esempio molto interessanti le rappresentazioni di musica, teatro e danza per bambini e ragazzi che stanno prendendo piede negli ultimi anni, spesso organizzate in convenzione con gli istituti scolastici: sono un ottimo modo per far conoscere ed apprezzare ai più giovani forme di intrattenimento diverse dalla televisione.
Servono più spazi e più strutture per il teatro, la musica e la danza in tutte le loro varianti, classiche e moderne. Non diamo agli artisti uno stipendio, ma la possibilità di esibirsi: se riusciranno ad ottenere l'apprezzamento del pubblico, saranno in grado di mantenersi da soli, altrimenti potranno continuare a dedicarsi allo spettacolo in modo amatoriale.

Vorrei conoscere le opinioni dei diretti interessati su queste mie riflessioni: se tra i lettori di questo blog c’è qualche musicista, attore, ballerino, regista, tecnico del suono o qualsiasi altro operatore dello spettacolo, professionista o dilettante, mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensa. Inserite i vostri commenti!

mercoledì 9 settembre 2009

Viaggio in Islanda – 01. Il viaggio

Durante la mattinata di lunedì abbiamo controllato le notizie sul traffico, in modo che se ci fosse stata qualche segnalazione di rallentamenti avremmo potuto anticipare la partenza, ma dopo il colossale esodo del fine settimana, sembrava che sulle autostrade tutto filasse liscio. Abbiamo preferito comunque muoverci in anticipo, per non rischiare che qualche imprevisto facesse sfumare la vacanza e siamo partiti con tutta calma poco dopo le 16:30.

Dopo la pianificazione informatica, il nostro viaggio ad alta tecnologia può iniziare solo in un modo: accendendo il navigatore satellitare. Siamo arrivati quasi a Santo Stino di Livenza prima che riuscisse a prendere il segnale dal satellite: cominciamo bene…
Ma non importa: conosciamo già la strada fino a Bologna, in realtà il navigatore ci serve solo per raggiungere il parcheggio una volta usciti dall’autostrada, anche se per precauzione ho comunque stampato una mappa.

Ho una certa diffidenza nei confronti dei navigatori, perché spesso gli aggiornamenti software non riescono a tenere il passo con le opere stradali, con ritardi anche di anni rispetto alle modifiche. Per fare un esempio, vicino a casa nostra ci sono due rotonde molto vicine, ma solo la seconda è inserita nelle mappe, l’altra evidentemente è troppo recente (ha “solo” un paio d’anni), e questo provoca non pochi problemi a chi arriva dall’autostrada e deve andare verso Treviso, perché il navigatore indica di prendere la prima uscita alla rotonda e chi fa questa strada per la prima volta esce dalla prima rotonda invece che dalla seconda e si ritrova a imboccare la nostra via anziché la tangenziale. Poco male per gli automobilisti, ma per i TIR è una bella seccatura, perché la strada è senza uscita e non c’è spazio per girare veicoli così grandi, che sono costretti tornare sulla strada principale a marcia indietro.
Anche il Passante di Mestre è una realizzazione troppo recente per il nostro navigatore, che ne conosce solo i primi chilometri, infatti dopo un po’ inizia ad andare in crisi, avviando una comica alternanza di silenzi smarriti (quando secondo le sue mappe ci troviamo in mezzo al nulla), suggerimenti improbabili (“Tornate indietro, quando potete”: e come no? una bella inversione a U in autostrada!) e tentativi di riprendere il controllo della situazione quando capita di scavalcare qualche strada conosciuta (“Tra duecento metri, girare a destra”: certo, peccato che la strada su cui vorrebbe farci svoltare si trovi diversi metri più in basso rispetto al Passante!).

Dopo aver ignorato qualche decina di suggerimenti, quasi quasi ci aspettiamo un: “Ma andate dove diavolo vi pare!!!”, invece la gentile voce femminile continua a tentare di aiutarci con artificiale eterna pazienza, anche quando si trova totalmente disorientata dalla nostra testarda resistenza ai suoi suggerimenti e le indicazioni si riducono a tentativi smozzicati: “Tra cinquanta metri gir-”, “Alla roton-“, “Gir-”. Ci pare quasi di sentirla sospirare di sollievo quando finalmente ci ricongiungiamo all’autostrada A4 e ricominciamo a darle retta.

In effetti il navigatore si dimostra utile per raggiungere il parcheggio (anche qui però non conosce un paio di rotonde!): dopo aver pagato anticipatamente la sosta, seguiamo la navetta fino alla zona in cui dobbiamo lasciare la nostra auto, trasbordiamo le valigie e noi stessi e ci avviamo verso l’aeroporto. Sulla navetta ci sono altri viaggiatori diretti in Islanda, ma non sembrano particolarmente cordiali e reagiscono abbastanza freddamente al mio tentativo di conversazione. Amen.

Siamo in anticipo, il check-in non è ancora aperto, ma sono già indicati i numeri dei banchi per il nostro volo. L’aeroporto non è molto grande e nella zona partenze i posti a sedere sono pochi, ma io ho bisogno di tenere la gamba un po’ sollevata, il viaggio in macchina fa già sentire il suo effetto sulla circolazione, anche se è durato meno di due ore e mezza. Finalmente Renato avvista un sedile libero, io me ne impadronisco, appoggio la gamba sopra a una delle valigie e mi dedico al man-watching, l’osservazione della fauna aeroportuale: è divertente studiare le persone che vanno e vengono, cercando di indovinare qualcosa su di loro.

Ci sono donne e ragazze così ossessionate dal look da aver scelto pantaloni aderentissimi e scarpe dai tacchi vertiginosi per il viaggio aereo, non proprio l’abbigliamento ideale, per quanto breve possa essere il volo; alcune di loro si mettono in coda per il check-in del nostro volo: cosa mai se ne faranno di sandali con tacco da 16 e pantaloni al ginocchio nella fresca e selvaggia Islanda? Mah…
Molti dei nostri compagni di volo invece si riconoscono proprio dall’abbigliamento insolito per il caldo afoso di Bologna, oltre che dall’abbondante bagaglio: jeans o pantaloni di felpa, scarpe da ginnastica o da trekking e maglioni o giubbotti sottobraccio, probabilmente portati a mano per ridurre il peso delle valigie, enormi e riempite al limite della possibilità di carico, e accompagnate da trolley o zaini straripanti. Chi parte per il mare invece viaggia più leggero: sandali, pantaloncini, canottiere e valigie di dimensioni ridotte.

Mi soffermo su alcuni personaggi. Quattro giovani sui vent’anni, abbondantemente dotati di tatuaggi e piercing, che cercano inutilmente di darsi arie da duri e di farsi notare da qualche ragazza. Due bambini giocano a tirarsi una palla di gomma dura, di quelle super-rimbalzanti, e ogni tanto colpiscono un passeggero in attesa, nell’indifferenza totale dei genitori: non un rimprovero, nemmeno un richiamo a fare più attenzione. Una famiglia con un bimbo piccolissimo e uno di forse due anni, la mamma evidentemente stravolta dalla stanchezza, il papà e i nonni indaffaratissimi ad organizzare la poppata per il neonato. Marito e moglie in partenza per la Sicilia, lui già irritato e pronto a piantar grane con la compagnia aerea perché anche se sul tabellone il loro volo è indicato in orario, per non so quale motivo è sicuro che partirà in ritardo. Un gruppo composto da due paio di famiglie, anche loro in partenza per l’Islanda, carichi all’inverosimile di bagagli e capitanati da un tipo grande e grosso, che dà istruzioni a voce altissima, informando l’intero aeroporto dei loro programmi: il classico italiano che mi vergogno di incontrare quando sono all’estero.
Interessante, quasi come essere allo zoo.

Mentalmente giro lo specchio e mi chiedo come possiamo apparire noi agli occhi degli altri viaggiatori: io mi sento piuttosto “normale”, ma chissà…

Con la coda dell’occhio sorveglio i banchi del check-in per il nostro volo, davanti ai quali inizia già a formarsi la coda. Dato che Renato è ancora in piedi perché non ci sono altre poltroncine libere nei dintorni, gli suggerisco di mettersi in coda. Inizialmente ignora la mia richiesta, ritenendola inutile: in aereo c’è posto per tutti; quando però la coda si allunga, gli faccio notare che facendo il check-in tra gli ultimi rischiamo di non trovare due posti vicini; alla fine si rassegna e si mette in fila.
L’attesa è un po’ più lunga del previsto, ma finalmente arriva il personale di terra ad aprire il check-in: nel frattempo la coda è arrivata davanti al mio sedile e per raggiungere Renato devo farmi strada tra la folla.
Ci sono diverse persone davanti a noi, ma arriva un colpo di fortuna: aprono un banco in più rispetto a quelli previsti e la hostess ci fa segno di avvicinarci. Ci fiondiamo immediatamente e carichiamo le valigie sul nastro per la pesatura: in totale sono 40.2 kg, praticamente perfette, la hostess sorride divertita alla nostra espressione di sollievo.

Liberi, e non solo metaforicamente, dal peso delle valigie, decidiamo di concederci uno spuntino; ormai è ora di cena e sul volo low-cost le consumazioni saranno a pagamento, meglio mangiare qualcosa a terra, così potrò prendere la Cardioaspirina per la circolazione e la Xamamina per il mal d’aria a stomaco pieno.

Al piano superiore c’è un fast food, è piuttosto affollato, ma non abbiamo fretta. La ragazza al banco sembra molto stanca e alcuni clienti davanti a noi le regalano un altro po’ di stress cambiando più volte idea sulle cose da ordinare; quando arriva il nostro turno, si confonde e insieme ai tranci di pizza mette nel vassoio patatine fritte al posto delle crocchette che avevo ordinato. Se ne accorge quasi subito e si scusa con uno sguardo disperatamente infelice, pronta a riparare all’errore sostituendo le patatine con le crocchette, ma mi fa davvero pena, probabilmente sta lavorando a ritmi infernali da chissà quante ore, magari con un contratto a termine e uno stipendio minimo, e quelle patatine da buttare via potrebbero significare un rimprovero da parte del suo capo. Le dico che non importa, va bene così, tanto il prezzo è lo stesso; insiste per un attimo, ma la rassicuro, davvero non c’è problema. Mi regala un sorriso pieno di gratitudine prima di passare al cliente successivo; e pazienza se metà delle mie patatine poi finiscono nella pancia di Renato perché non ne avevo una gran voglia.


Finito di mangiare butto giù le mie pastiglie con un sorso d’acqua, poi svuoto le bottigliette che ci eravamo portati da casa, per poter passare i controlli di sicurezza. Bisogna tirare fuori dal bagaglio a mano tutte le apparecchiature elettroniche e metterle nelle vaschette di plastica per l’ispezione ai raggi X: in pratica mi tocca svuotare quasi tutto lo zaino, perché ci sono due macchine fotografiche, la telecamera e il netbook.

In compenso ho avuto l’accortezza di non indossare niente di metallico, a parte l’orologio e gli occhiali, che tolgo subito prima di passare attraverso il metal detector, anche se all'ultimo momento mi viene un dubbio: non è che i punti metallici che mi sono rimasti nella pancia faranno scattare l’allarme? Speriamo di no, non ho con me una TAC né un certificato medico per spiegare la situazione… Preoccupazione infondata, al mio passaggio non parte nessuna sirena e posso subito recuperare i miei oggetti, mentre Renato si rimette la cintura che aveva dovuto togliere per via della fibbia metallica.
In attesa dell’imbarco ci sistemiamo sui sedili vicino al gate, con un libro per ciascuno. Abbiamo portato quattro tascabili, Renato ha scelto di iniziare con un thriller, mentre io ho optato per un giallo di ambientazione medievale che mi fa sgranare gli occhi già alla seconda pagina per un inqualificabile errore di grammatica: “Chi va l’ha?”. Cominciamo bene… Alla fine del libro, gli errori saranno addirittura una quindicina e al rientro dalla vacanza l’editore riceverà una mail di protesta da parte mia.
Ma i libri non dovrebbero essere il tempio della lingua, l’ultimo rifugio da un mondo di grammatica dimenticata e abbreviazioni da SMS?
Anche se, dopo aver sentito un’insegnante di scuola elementare dire che nella divisione in sillabe la “s” rimane attaccata alle lettere che la precedono (per cui pasto secondo lei si dovrebbe sillabare pas-to) e ben due insegnanti di lettere che scrivono "pò", con l’accento invece che con l’apostrofo, non dovrei stupirmi più di niente.

La procedura di imbarco è rapida, per raggiungere l’aereo ci fanno salire sul pulmino che però fa pochissima strada, al punto che mi pare quasi inutile, avremmo potuto andare a piedi, ma forse è una questione di sicurezza, per evitare di avere passeggeri a spasso sulle piste.
Il mio posto è vicino al finestrino, ma la visuale è quasi completamente ostruita dall’ala dell’aereo e comunque ormai è buio, c’è poco da vedere. Mi tolgo immediatamente le scarpe, cercando di prevenire per quanto possibile il gonfiore ai piedi.
La sonnolenza, effetto collaterale della Xamamina, per una volta arriva gradita: di solito in aereo non riesco a chiudere occhio, ma questa volta faccio fatica a tenere gli occhi aperti già durante il decollo. Appena la hostess finisce di spiegare le procedure di sicurezza, cerco una posizione non troppo scomoda, rimpiangendo di non aver preso subito uno dei cuscini che avevo intravisto nel vano bagagli, e di cui si sono ormai appropriati altri passeggeri, mi copro con una felpa e mi appisolo quasi subito.


Non mi addormento profondamente, durante il volo riapro gli occhi diverse volte per cambiare posizione o controllare l’ora, ma alcuni periodi di sonno sono abbastanza lunghi e ad un certo punto mi trovo davanti una bottiglietta d’acqua senza sapere com’è arrivata; è stato un pensiero gentile di Renato, decisamente opportuno perché ho la bocca asciutta a causa dell’aria secca dell’aereo e bevo volentieri qualche sorso, sorrido a Renato, do un’occhiata all’orologio e mi rimetto a dormire.
Dopo circa due ore di volo, più o meno a metà strada, decido che è ora di fare una passeggiata; mi dispiace disturbare la signora che occupa il posto a fianco a noi e che sta dormendo, ma i miei piedi si sono già gonfiati, ho bisogno di riattivare un po’ la circolazione. Vado avanti e indietro per il corridoio, mi stiracchio, tiro qualche calcio all’aria, mi sollevo un po’ di volte sulla punta dei piedi, poi torno al mio posto per un altro pisolino.

Circa mezz’ora prima dell’arrivo riapro faticosamente gli occhi, questa volta determinata a restare sveglia per non arrivare troppo intontita: l’atterraggio è previsto a mezzanotte e mezza ora locale, ma per noi saranno le due e mezza per via della differenza di fuso orario (l’Islanda nel periodo estivo è indietro di due ore rispetto all’Italia perché non adotta l’ora legale).
Il cielo non è più completamente scuro, ci siamo mossi verso nord, dove le giornate sono ancora lunghe, anche se restiamo al di sotto del Circolo Polare Artico e il sole tramonta per qualche ora.

Finalmente intravedo sotto l’ala dell’aereo qualche spicchio di terra. La prima immagine dell’Islanda mostra più chiaramente di qualsiasi spiegazione cosa significa una densità di popolazione inferiore a 3 abitanti per chilometro quadrato: dopo i grappoli quasi ininterrotti di luci dell’Europa continentale sembra di sorvolare un deserto, con sol qualche occasionale punto luminoso.

Atterraggio morbido, l’aereo si avvicina al terminal e inizia l’agitazione per recuperare i bagagli a mano e sbarcare. Noi restiamo seduti aspettando che gli altri passeggeri inizino a scendere, è inutile accalcarsi per guadagnare pochi minuti.
Questa volta l’aereo è collegato direttamente al terminal attraverso un corridoio mobile e non c’è bisogno di uscire all’esterno. L’aeroporto di Keflavík non è molto grande, bastano pochi minuti per raggiungere la zona di distribuzione dei bagagli e le procedure di scarico sono veloci, aspettiamo solo una decina di minuti per recuperare le nostre valigie.

Seguiamo le indicazioni verso l’uscita, una volta raggiunto l’atrio mi guardo intorno per vedere dov’è la fermata del Flybus, la navetta per Reykjavík. Facilissimo: è proprio davanti all’uscita. Metto il naso fuori con prudenza, per valutare la temperatura: se dovesse esserci troppo freddo sarebbe meglio tirare fuori il piumino dalla valigia. Ma la notte è relativamente tiepida, ci saranno sette od otto gradi, la felpa può bastare, dato che comunque saliremo subito sul bus e scenderemo davanti all’hotel.


Ė ora di rispolverare il nostro inglese, che praticamente esce dalla naftalina solo quando andiamo in vacanza. E si sente…
Tiro fuori dallo zaino la stampa della prenotazione e la mostro all’autista, che mi spiega che devo andare allo sportello per farmi dare i biglietti. Oddio! E dov’è lo sportello? Proprio lì, vicino alla porta, ci ero appena passata davanti senza farci caso. Mentre Renato carica le valigie, vado a ritirare i biglietti, spiegando che dobbiamo scendere all’hotel Hilton (cosa che mi dà una certa aria di importanza…), poi torno fuori e prendiamo posto sul Flybus.

Uscendo dall’area aeroportuale mi colpisce una strana scultura, che sembra composta da pezzi di metallo illuminati da luci colorate. Mi vengono in mente le informazioni lette sulla guida, che descrivono l’Islanda – e in particolare Reykjavík – come fucina di arte moderna e design contemporaneo.

Ci avviamo verso la capitale: la strada è migliore di quanto mi aspettassi, quasi un’autostrada, con due corsie per ogni senso di marcia. Guardo dal finestrino cercando di assorbire le prime impressioni di questo Paese: a sinistra, verso nord, si vede il mare, mentre a destra la luna che fa capolino tra le nuvole illumina un paesaggio quasi spettrale, una pianura piena di piccole ondulazioni e completamente priva di alberi.

Scambiamo qualche parola con una coppia di qualche anno più giovane di noi: si aspettavano di trovare più chiaro, magari non proprio il sole di mezzanotte, ma quasi, invece c’è solo una striscia di celo azzurro cobalto verso nord.

Dopo circa quaranta minuti arriviamo a Reykjavík; so che il nostro hotel è un po’ fuori dal centro, quindi spero che sarà una delle prime fermate. Cerco di orientarmi, ma faccio fatica a seguire le svolte del bus, ho quasi l’impressione che giri in tondo; più volte intravedo la sagoma di un edificio enorme, può essere solo la Hallgrímskirkja, la grande chiesa di cemento che secondo la guida è visibile da venti chilometri di distanza.

La prima sosta è davanti ad uno degli hotel che avevo preso in considerazione come possibile alloggio, scartandolo poi a favore dell’Hilton: mi congratulo con me stessa per non averlo scelto, perché ha un aspetto decisamente più malandato rispetto alle immagini pubblicate in Internet. Ci fermiamo al capolinea dei bus per far scendere una parte dei passeggeri, che raggiungeranno i loro hotel con un veicolo più piccolo, mentre noi restiamo sul Flybus, che riparte, allontanandosi dal centro per qualche chilometro. Sfuma completamente l’ipotesi che la scelta di un hotel prestigioso ci avrebbe dato qualche priorità nella sequenza delle fermate: siamo proprio gli ultimi a scendere, dopo aver lasciato una coppia più o meno sui sessant’anni all’ostello (ma una volta non si chiamavano “ostelli della gioventù”?).


L’hotel si presenta proprio come ci si può aspettare da un Hilton: un atrio elegante, di marmi chiari e legno scuro e un receptionist dai modi impeccabili, che sbriga in un attimo le pratiche di check-in e ci consegna le schede magnetiche per aprire la camera, augurandoci una buona notte.


Per fortuna domani ho programmato una giornata tranquilla e non dovremo svegliarci presto, perché a Reykjavík inizia ad albeggiare, ormai sono le tre, le cinque del mattino per noi che siamo ancora sintonizzati sull’ora italiana, quando finalmente ci infiliamo sotto i piumini per la nostra prima notte islandese.

venerdì 4 settembre 2009

Viaggio in Islanda – 00. L’organizzazione

L’Islanda era un sogno nel cassetto già da alcuni anni, più volte accarezzato, valutato e invariabilmente accantonato per i prezzi troppo elevati, al punto che alla fine di giugno, quando dopo qualche preoccupazione finalmente gli esiti dei controlli mi hanno dato via libera fino a settembre, non l’avevo nemmeno presa in considerazione.
A luglio ho avuto pochissimo lavoro e molto tempo libero da dedicare alla pianificazione delle vacanze, così ho iniziato a identificare qualche possibile destinazione. Stavo analizzando la Scozia, avevo trovato alcune interessanti proposte di itinerari naturalistici e cominciavo a fare qualche conticino per capire quanto sarebbe potuta venire a costare una vacanza fly & drive, quando Renato ha rilanciato l’idea dell’Islanda. “È sempre la solita storia,” – gli ho risposto – “costa troppo”. Ma lui ha insistito: “Prova a dare un’occhiata”.
Più che altro per accontentarlo, ma senza crederci molto, ho cercato in rete i siti dei tour operators che propongono viaggi in Islanda: ne ho trovati sei e, sorprendentemente, i prezzi, sebbene impegnativi, sembravano decisamente più abbordabili rispetto agli anni scorsi. Una breve indagine su Internet ha svelato il mistero: la moneta islandese ha pagato un tributo pesante alla crisi economica e finanziaria, con una forte svalutazione rispetto all’Euro. Buon per noi.

Ho iniziato a creare una tabella per confrontare le soluzioni che mi parevano più interessanti e ho mandato qualche mail ai relativi tour operators, indicando il periodo disponibile e il tipo di viaggio, un giro dell’isola con auto a noleggio della durata di 10-15 giorni, citando le proposte dei cataloghi che più si avvicinavano alla mia idea e specificando che per me era importante avere il volo diretto o comunque una durata complessiva del viaggio ridotta, per evitare di passare troppo tempo tra aerei ed aeroporti con il rischio di ritrovarmi la gamba destra gonfia come un pallone.
La prima risposta è stata scoraggiante: proprio l’organizzazione il cui sito web mi aveva colpito più favorevolmente si è dimostrata quantomeno superficiale nella valutazione della mia richiesta e mi ha proposto una settimana a Reykjavík con partenza tre giorni prima dell’inizio delle ferie di Renato. Tutta un’altra cosa rispetto a quello che avevo chiesto. Ho soffocato l’istinto di mandare una rispostaccia e ho gentilmente evidenziato che cercavo qualcosa di diverso e che dovevamo tassativamente restare entro le date che avevo indicato.
Nel frattempo mi è arrivata risposta da un altro tour operator, che proponeva il volo di andata da Linate via Londra e il ritorno diretto su Malpensa. Già meglio, anche se piuttosto scomodo: bisognava lasciare l’auto a Malpensa e prendere lo shuttle per Linate e il prezzo era comunque abbastanza impegnativo, nonostante le sistemazioni in hotel piuttosto spartani.
Un terzo tour operator mi ha proposto il volo da Venezia con scali a Copenhagen, ma la durata complessiva del viaggio diventava di otto ore all’andata e addirittura di ventidue ore al ritorno, con un pernottamento a Copenhagen che poteva anche essere interessante se non ci fossimo già stati qualche anno fa.

Insomma, non ero molto convinta, ma avevo un intero weekend a disposizione per analizzare la situazione.
Per prima cosa ho verificato il volo: c’erano diverse possibilità di voli con scalo (seconda tabella), ma tutte prevedevano tempi complessivi di viaggio abbastanza lunghi e temevo che le ore in aereo e/o in aeroporto sarebbero state troppo pesanti per la mia gamba. Un’occhiata ai siti delle compagnie aeree che propongono voli diretti dall’Italia a Reykjavík mi ha rivelato che i voli di agosto da Milano erano al completo, ma da Bologna c’erano ancora alcuni posti.
Mmmh… vuoi vedere che si può fare?
Verifichiamo il resto.
Ho elaborato i preventivi per il noleggio auto dai siti delle principali compagnie, ma anche da quelli delle piccole agenzie locali trovate sul sito dell’ente per il turismo islandese: in tutti i casi erano più convenienti di quelli proposti dai tour operators. Terza tabella.

Interessante. Andiamo avanti.
Ho costruito un itinerario di massima, pescando idee dai cataloghi e dai resoconti di viaggio trovati in rete: quarta tabella.
Poi ho cercato le possibili sistemazioni nelle località in cui era previsto il pernottamento: anche qui, i prezzi sembravano più convenienti rispetto a quelli indicati nei cataloghi e sono finiti nella quinta tabella.
Per avere un preventivo affidabile, ho confrontato anche i prezzi dei parcheggi in prossimità dell’aeroporto di Bologna: sesta tabella.
Alla fine ho sommato tutto (settima tabella) e sembrava proprio che questo viaggio si potesse fare, con un costo di oltre 1.000 euro in meno rispetto alle offerte dei tour operators. Bisognava decidere se buttarsi nell’avventura dell’organizzazione fai-da-te.
Una consultazione con Renato, un po’ di conti sulle spese da sostenere in loco, che andavano aggiunte al preventivo di massima che avevo calcolato, e poi la decisione: si va.

Mi sono armata di carta di credito e ho prenotato prima di tutto il volo, che sembrava essere l’aspetto più critico perché c’erano ancora pochi posti disponibili. Il passo successivo era stabilire l’itinerario definitivo, perché in base a quello avrei dovuto scegliere le sistemazioni per la notte. Quasi tutti i viaggi organizzati prevedevano la sosta a Reykjavík negli ultimi giorni del viaggio, ma per quanto cercassi di incastrare gli orari (altre tre tabelle per esaminare diverse possibili soluzioni), questa soluzione mi avrebbe costretto a noleggiare l’auto per un giorno in più, considerando gli orari di arrivo e partenza dei voli. Alla fine, ho deciso di iniziare con la visita della capitale e poi proseguire il giro dell’isola in senso antiorario. In questo modo il noleggio si poteva ridurre a 12 giorni, ritirando l’auto a Reykjavík per restituirla poi all’aeroporto.

Le zone raggiungibili solo con auto 4x4 erano escluse, sia perché il costo del noleggio auto sarebbe stato proibitivo, sia perché non è sufficiente avere un veicolo a trazione integrale per affrontare piste e guadi, bisogna anche saperlo guidare e non è il nostro caso. Il mio itinerario quindi seguiva sostanzialmente la Hringvegur, la strada principale che fa il giro dell'isola, con qualche deviazione verso le destinazioni di maggiore interesse turistico.
Eliminata l'opzione del 4x4, la scelta dell'auto era semplice: la più economica possibile. Essendo in due, non avremmo avuto bisogno di molto spazio e un'utilitaria sarebbe stata sufficiente, preferibilmente la Yaris, dato che siamo già abituati a guidarla.
Ho ricontrollato le tariffe dei noleggi, inserendo anche tutti gli optional (secondo guidatore, restituzione dell’auto in aeroporto, assicurazione supplementare), e ho scoperto che le piccole compagnie locali non erano poi così economiche rispetto ai colossi internazionali dell’autonoleggio, anzi, alla fine la più conveniente si è rivelata proprio la Hertz, grazie anche ad una tariffa speciale che mi è stata applicata per aver prenotato partendo dal link sul forum degli amici di MondoOTdisneyland.
Secondo salasso alla carta di credito…


Ormai l’ingranaggio era avviato: ho passato i giorni 11 e 12 luglio a spulciare siti relativi ad alberghi, guesthouse e bed & breakfast, esaminando soprattutto i commenti dei clienti e le fotografie e confrontando i prezzi: sono partita da una lista di 135 possibili sistemazioni fino ad arrivare all’elenco finale di 9 alberghi di buon livello, a tre o quattro stelle (altra tabella…), per ognuno dei quali ho cercato in rete la tariffa più conveniente. A questo punto erano le quattro del mattino, la prima carta di credito era esaurita e per prenotare gli hotel ho dovuto iniziare ad usare la seconda.
Il giorno dopo ho fatto le ultime due prenotazioni, il parcheggio a Bologna e il bus navetta dall’aeroporto di Keflavík all’hotel di Reykjavík, poi finalmente ho tirato le somme: il totale era di oltre 1.200 euro inferiore alla migliore offerta dei tour operators, ma avevo scelto quasi tutti hotel di categoria superiore rispetto a quelli proposti dai cataloghi. Mi sono data metaforicamente una pacca sulla spalla, congratulandomi con me stessa.


Quel giorno è arrivata anche una nuova offerta del primo tour operator che avevo contattato: questa volta mi proponevano esattamente ciò che avevo chiesto all’inizio, anche se con un costo superiore rispetto al mio totale fai-da-te, e con una certa maligna soddisfazione ho potuto rispondere che ormai mi ero arrangiata da sola. Ho mandato una risposta simile anche alle altre offerte, ma più gentile e ringraziando per l’attenzione ed il tempo che mi avevano dedicato.
Ma la preparazione era ancora ben lontana dall’essere completa…

L’itinerario che avevo preparato doveva essere dettagliato con le cose da fare e da vedere in ciascuna località: avevo bisogno di una guida. E quando si dice guida per un viaggio, si dice Lonely Planet. Avevo già una piccola lista di libri da acquistare su IBS, ho aggiunto la guida e alcuni tascabili da portare in viaggio, approfittando anche di alcuni sconti interessanti e della spedizione gratuita, e ho trasmesso l’ordine.

Appena è arrivata la guida ho iniziato a compilare l’ennesima tabella (decima? undicesima? mah…), riportando per ogni giornata le destinazioni e le attività, esaminando anche i siti delle località, dei musei e degli organizzatori di escursioni per capire cosa valesse la pena fare e quanto tempo sarebbe stato necessario. E già che c’ero ho creato anche una lista dei locali che mi sembravano più interessanti per assaggiare la cucina locale.

Navigando in rete, mi sono imbattuta in una proposta di escursione davvero stuzzicante: immersioni nella fenditura di Silfra, sul Þingvallavatn, un lago glaciale limpidissimo, con una visibilità che nelle giornate migliori può arrivare fino a 100 metri. Le recensioni di chi aveva provato questa esperienza erano entusiastiche, ma avevo qualche dubbio legato soprattutto alla mia scarsa condizione fisica, al fatto che non avevamo l’addestramento per utilizzare le mute stagne e, non ultimo, al costo piuttosto elevato.
Una mail agli organizzatori mi ha confermato che era possibile effettuare le immersioni anche per chi non aveva mai utilizzato la muta stagna, ci avrebbero spiegato loro come comportarci. Ancora qualche tentennamento, ma alla fine ci siamo detti che è una di quelle occasioni che capitano una volta nella vita e non si può lasciarsela sfuggire. Prenotato!


Ho prenotato in anticipo anche alcune cose che ci tenevo a fare Reykjavík e per le quali il numero di posti disponibili era limitato: l’escursione di whale watching e le cene al Sjávarkjallarinn, da molti giudicato il migliore ristorante d’Islanda, e al Vox, un altro ristorante rinomato che si trovava proprio all’interno del nostro hotel. Entrambi i ristoranti pubblicano sul proprio sito Internet il menu con i prezzi, sicuramente impegnativi, ma assolutamente confrontabili con quelli di una buona cena di pesce in Italia: trattiamoci bene!

Ci serviva qualche riferimento per muoverci in auto: abbiamo scoperto che non esistono le mappe dell’Islanda per i navigatori satellitari, quindi ci siamo affidati alla buona vecchia cartina stradale (che tutto sommato a me continua a piacere), ordinata sempre via Internet dalla libreria VEL di Sondrio, specializzata in pubblicazioni per viaggiatori, che me l’ha fatta arrivare a casa in due giorni con spese di consegna molto contenute.


Nel frattempo ho verificato quali sono le condizioni meteorologiche e le temperature medie che ci si possono aspettare in agosto nelle diverse zone dell’Islanda e in base a quello ho iniziato a compilare la lista delle cose da mettere nel bagaglio, consultando anche la mia dottoressa per avere qualche suggerimento per una piccola farmacia da viaggio che ci consentisse di affrontare i malanni più comuni, tenendo comunque presente che in Islanda avremmo potuto senz’altro trovare un medico e/o una farmacia in caso di necessità.

A questo punto immagino che anche chi non mi conosce di persona abbia capito che ho la mania della programmazione…
Sono convinta che un buon programma non sia un vincolo, ma che anzi dia la massima libertà, permettendo di godersi la vacanza senza rischiare di trascurare qualcosa che vale la pena di vedere o di arrivare nell’orario sbagliato o di perdere ore a cercare un posto per la notte. L’importante è non diventare schiavi della tabella di marcia, ma al contrario sfruttarla come strumento flessibile, come una rete di sicurezza in cui però non bisogna impigliarsi, mettendo in conto fin dall’inizio che ci sarà sicuramente qualche modifica, ma che potrà essere gestita in tutta tranquillità avendo già un’idea dei luoghi, delle attività e dei tempi.
Infatti le modifiche sono iniziate ancora prima di partire, preparando i bagagli: ho tirato fuori tutto quello che avevo pensato di portare e ovviamente ho scoperto che era troppa roba, quindi ho iniziato a togliere, cambiare e risistemare, fino ad arrivare ad una valigia del peso di 20,1kg, a cui potevo ragionevolmente pensare di far passare il check-in senza supplementi di tariffa: le cose che alla fine sono entrate in valigia non corrispondevano esattamente all’elenco che avevo preparato, ma ero comunque abbastanza sicura di avere tutto quello che mi sarebbe potuto servire.


Avendo organizzato tutto via Internet e con il supporto delle mie preziose tabelle Excel, mi disturbava un po’ l’idea di dover fare una certa quantità di stampe per avere i riferimenti necessari (prenotazioni, itinerari, indirizzi…), ma Renato mi è venuto incontro con uno dei suoi attacchi di “regalite”: mettendo in pratica un’idea che gli frullava in testa già da qualche mese, mi ha regalato un netbook, un minicomputer poco più grande di un libro con il quale avrei potuto facilmente portarmi dietro tutto il mio archivio di viaggio e accedere a Internet anche dall’Islanda, sfruttando le connessioni gratuite della maggior parte degli alberghi per prenotare ulteriori escursioni, tenere sotto controllo i movimenti delle carte di credito (la sua era stata clonata poche settimane prima, quindi era molto sensibile all’argomento!) e mandare SMS gratuiti alle nostre mamme, evitando i costi delle chiamate internazionali.


Gli ultimi giorni prima della partenza mi sono dedicata alla casa: ci tenevo a lasciare tutto pulito e in ordine… soprattutto per evitare di trovarmi troppe cose da fare al ritorno!
Come al solito ho dovuto lavorare a rate, non riesco a fare più di due o tre attività pesanti nella stessa giornata, ad esempio se pulisco i bagni non ce la faccio a passare anche l’aspirapolvere, ma un po’ per volta, anche con l’aiuto di Renato, ho spuntato l’elenco delle cose da fare fino a svuotarlo.


Ho scoperto che partire di lunedì pomeriggio è un’ottima cosa, perché non solo si evita il traffico da bollino nero, ma si ha anche la possibilità di dedicare il weekend ai preparativi e di utilizzare il lunedì mattina per andare a comperare le cose che inevitabilmente si scoprono mancanti proprio all’ultimo momento (nel caso specifico il dentifricio).
Finalmente, dopo tanto lavoro preliminare e innumerevoli tabelle, lunedì 9 agosto dopo pranzo eravamo pronti a partire!