Ma non importa: conosciamo già la strada fino a Bologna, in realtà il navigatore ci serve solo per raggiungere il parcheggio una volta usciti dall’autostrada, anche se per precauzione ho comunque stampato una mappa.
Ho una certa diffidenza nei confronti dei navigatori, perché spesso gli aggiornamenti software non riescono a tenere il passo con le opere stradali, con ritardi anche di anni rispetto alle modifiche. Per fare un esempio, vicino a casa nostra ci sono due rotonde molto vicine, ma solo la seconda è inserita nelle mappe, l’altra evidentemente è troppo recente (ha “solo” un paio d’anni), e questo provoca non pochi problemi a chi arriva dall’autostrada e deve andare verso Treviso, perché il navigatore indica di prendere la prima uscita alla rotonda e chi fa questa strada per la prima volta esce dalla prima rotonda invece che dalla seconda e si ritrova a imboccare la nostra via anziché la tangenziale. Poco male per gli automobilisti, ma per i TIR è una bella seccatura, perché la strada è senza uscita e non c’è spazio per girare veicoli così grandi, che sono costretti tornare sulla strada principale a marcia indietro.
Siamo in anticipo, il check-in non è ancora aperto, ma sono già indicati i numeri dei banchi per il nostro volo. L’aeroporto non è molto grande e nella zona partenze i posti a sedere sono pochi, ma io ho bisogno di tenere la gamba un po’ sollevata, il viaggio in macchina fa già sentire il suo effetto sulla circolazione, anche se è durato meno di due ore e mezza. Finalmente Renato avvista un sedile libero, io me ne impadronisco, appoggio la gamba sopra a una delle valigie e mi dedico al man-watching, l’osservazione della fauna aeroportuale: è divertente studiare le persone che vanno e vengono, cercando di indovinare qualcosa su di loro.
Molti dei nostri compagni di volo invece si riconoscono proprio dall’abbigliamento insolito per il caldo afoso di Bologna, oltre che dall’abbondante bagaglio: jeans o pantaloni di felpa, scarpe da ginnastica o da trekking e maglioni o giubbotti sottobraccio, probabilmente portati a mano per ridurre il peso delle valigie, enormi e riempite al limite della possibilità di carico, e accompagnate da trolley o zaini straripanti. Chi parte per il mare invece viaggia più leggero: sandali, pantaloncini, canottiere e valigie di dimensioni ridotte.
Mi soffermo su alcuni personaggi. Quattro giovani sui vent’anni, abbondantemente dotati di tatuaggi e piercing, che cercano inutilmente di darsi arie da duri e di farsi notare da qualche ragazza. Due bambini giocano a tirarsi una palla di gomma dura, di quelle super-rimbalzanti, e ogni tanto colpiscono un passeggero in attesa, nell’indifferenza totale dei genitori: non un rimprovero, nemmeno un richiamo a fare più attenzione. Una famiglia con un bimbo piccolissimo e uno di forse due anni, la mamma evidentemente stravolta dalla stanchezza, il papà e i nonni indaffaratissimi ad organizzare la poppata per il neonato. Marito e moglie in partenza per la Sicilia, lui già irritato e pronto a piantar grane con la compagnia aerea perché anche se sul tabellone il loro volo è indicato in orario, per non so quale motivo è sicuro che partirà in ritardo. Un gruppo composto da due paio di famiglie, anche loro in partenza per l’Islanda, carichi all’inverosimile di bagagli e capitanati da un tipo grande e grosso, che dà istruzioni a voce altissima, informando l’intero aeroporto dei loro programmi: il classico italiano che mi vergogno di incontrare quando sono all’estero.
Interessante, quasi come essere allo zoo.
Con la coda dell’occhio sorveglio i banchi del check-in per il nostro volo, davanti ai quali inizia già a formarsi la coda. Dato che Renato è ancora in piedi perché non ci sono altre poltroncine libere nei dintorni, gli suggerisco di mettersi in coda. Inizialmente ignora la mia richiesta, ritenendola inutile: in aereo c’è posto per tutti; quando però la coda si allunga, gli faccio notare che facendo il check-in tra gli ultimi rischiamo di non trovare due posti vicini; alla fine si rassegna e si mette in fila.
Al piano superiore c’è un fast food, è piuttosto affollato, ma non abbiamo fretta. La ragazza al banco sembra molto stanca e alcuni clienti davanti a noi le regalano un altro po’ di stress cambiando più volte idea sulle cose da ordinare; quando arriva il nostro turno, si confonde e insieme ai tranci di pizza mette nel vassoio patatine fritte al posto delle crocchette che avevo ordinato. Se ne accorge quasi subito e si scusa con uno sguardo disperatamente infelice, pronta a riparare all’errore sostituendo le patatine con le crocchette, ma mi fa davvero pena, probabilmente sta lavorando a ritmi infernali da chissà quante ore, magari con un contratto a termine e uno stipendio minimo, e quelle patatine da buttare via potrebbero significare un rimprovero da parte del suo capo. Le dico che non importa, va bene così, tanto il prezzo è lo stesso; insiste per un attimo, ma la rassicuro, davvero non c’è problema. Mi regala un sorriso pieno di gratitudine prima di passare al cliente successivo; e pazienza se metà delle mie patatine poi finiscono nella pancia di Renato perché non ne avevo una gran voglia.
Finito di mangiare butto giù le mie pastiglie con un sorso d’acqua, poi svuoto le bottigliette che ci eravamo portati da casa, per poter passare i controlli di sicurezza. Bisogna tirare fuori dal bagaglio a mano tutte le apparecchiature elettroniche e metterle nelle vaschette di plastica per l’ispezione ai raggi X: in pratica mi tocca svuotare quasi tutto lo zaino, perché ci sono due macchine fotografiche, la telecamera e il netbook.
Il mio posto è vicino al finestrino, ma la visuale è quasi completamente ostruita dall’ala dell’aereo e comunque ormai è buio, c’è poco da vedere. Mi tolgo immediatamente le scarpe, cercando di prevenire per quanto possibile il gonfiore ai piedi.
Non mi addormento profondamente, durante il volo riapro gli occhi diverse volte per cambiare posizione o controllare l’ora, ma alcuni periodi di sonno sono abbastanza lunghi e ad un certo punto mi trovo davanti una bottiglietta d’acqua senza sapere com’è arrivata; è stato un pensiero gentile di Renato, decisamente opportuno perché ho la bocca asciutta a causa dell’aria secca dell’aereo e bevo volentieri qualche sorso, sorrido a Renato, do un’occhiata all’orologio e mi rimetto a dormire.
Dopo circa due ore di volo, più o meno a metà strada, decido che è ora di fare una passeggiata; mi dispiace disturbare la signora che occupa il posto a fianco a noi e che sta dormendo, ma i miei piedi si sono già gonfiati, ho bisogno di riattivare un po’ la circolazione. Vado avanti e indietro per il corridoio, mi stiracchio, tiro qualche calcio all’aria, mi sollevo un po’ di volte sulla punta dei piedi, poi torno al mio posto per un altro pisolino.
Circa mezz’ora prima dell’arrivo riapro faticosamente gli occhi, questa volta determinata a restare sveglia per non arrivare troppo intontita: l’atterraggio è previsto a mezzanotte e mezza ora locale, ma per noi saranno le due e mezza per via della differenza di fuso orario (l’Islanda nel periodo estivo è indietro di due ore rispetto all’Italia perché non adotta l’ora legale).
Il cielo non è più completamente scuro, ci siamo mossi verso nord, dove le giornate sono ancora lunghe, anche se restiamo al di sotto del Circolo Polare Artico e il sole tramonta per qualche ora.
Finalmente intravedo sotto l’ala dell’aereo qualche spicchio di terra. La prima immagine dell’Islanda mostra più chiaramente di qualsiasi spiegazione cosa significa una densità di popolazione inferiore a 3 abitanti per chilometro quadrato: dopo i grappoli quasi ininterrotti di luci dell’Europa continentale sembra di sorvolare un deserto, con sol qualche occasionale punto luminoso.
Atterraggio morbido, l’aereo si avvicina al terminal e inizia l’agitazione per recuperare i bagagli a mano e sbarcare. Noi restiamo seduti aspettando che gli altri passeggeri inizino a scendere, è inutile accalcarsi per guadagnare pochi minuti.
Questa volta l’aereo è collegato direttamente al terminal attraverso un corridoio mobile e non c’è bisogno di uscire all’esterno. L’aeroporto di Keflavík non è molto grande, bastano pochi minuti per raggiungere la zona di distribuzione dei bagagli e le procedure di scarico sono veloci, aspettiamo solo una decina di minuti per recuperare le nostre valigie.
Seguiamo le indicazioni verso l’uscita, una volta raggiunto l’atrio mi guardo intorno per vedere dov’è la fermata del Flybus, la navetta per Reykjavík. Facilissimo: è proprio davanti all’uscita. Metto il naso fuori con prudenza, per valutare la temperatura: se dovesse esserci troppo freddo sarebbe meglio tirare fuori il piumino dalla valigia. Ma la notte è relativamente tiepida, ci saranno sette od otto gradi, la felpa può bastare, dato che comunque saliremo subito sul bus e scenderemo davanti all’hotel.
Ė ora di rispolverare il nostro inglese, che praticamente esce dalla naftalina solo quando andiamo in vacanza. E si sente…
Tiro fuori dallo zaino la stampa della prenotazione e la mostro all’autista, che mi spiega che devo andare allo sportello per farmi dare i biglietti. Oddio! E dov’è lo sportello? Proprio lì, vicino alla porta, ci ero appena passata davanti senza farci caso. Mentre Renato carica le valigie, vado a ritirare i biglietti, spiegando che dobbiamo scendere all’hotel Hilton (cosa che mi dà una certa aria di importanza…), poi torno fuori e prendiamo posto sul Flybus.
Uscendo dall’area aeroportuale mi colpisce una strana scultura, che sembra composta da pezzi di metallo illuminati da luci colorate. Mi vengono in mente le informazioni lette sulla guida, che descrivono l’Islanda – e in particolare Reykjavík – come fucina di arte moderna e design contemporaneo.
Ci avviamo verso la capitale: la strada è migliore di quanto mi aspettassi, quasi un’autostrada, con due corsie per ogni senso di marcia. Guardo dal finestrino cercando di assorbire le prime impressioni di questo Paese: a sinistra, verso nord, si vede il mare, mentre a destra la luna che fa capolino tra le nuvole illumina un paesaggio quasi spettrale, una pianura piena di piccole ondulazioni e completamente priva di alberi.
Scambiamo qualche parola con una coppia di qualche anno più giovane di noi: si aspettavano di trovare più chiaro, magari non proprio il sole di mezzanotte, ma quasi, invece c’è solo una striscia di celo azzurro cobalto verso nord.
Dopo circa quaranta minuti arriviamo a Reykjavík; so che il nostro hotel è un po’ fuori dal centro, quindi spero che sarà una delle prime fermate. Cerco di orientarmi, ma faccio fatica a seguire le svolte del bus, ho quasi l’impressione che giri in tondo; più volte intravedo la sagoma di un edificio enorme, può essere solo la Hallgrímskirkja, la grande chiesa di cemento che secondo la guida è visibile da venti chilometri di distanza.
La prima sosta è davanti ad uno degli hotel che avevo preso in considerazione come possibile alloggio, scartandolo poi a favore dell’Hilton: mi congratulo con me stessa per non averlo scelto, perché ha un aspetto decisamente più malandato rispetto alle immagini pubblicate in Internet. Ci fermiamo al capolinea dei bus per far scendere una parte dei passeggeri, che raggiungeranno i loro hotel con un veicolo più piccolo, mentre noi restiamo sul Flybus, che riparte, allontanandosi dal centro per qualche chilometro. Sfuma completamente l’ipotesi che la scelta di un hotel prestigioso ci avrebbe dato qualche priorità nella sequenza delle fermate: siamo proprio gli ultimi a scendere, dopo aver lasciato una coppia più o meno sui sessant’anni all’ostello (ma una volta non si chiamavano “ostelli della gioventù”?).
L’hotel si presenta proprio come ci si può aspettare da un Hilton: un atrio elegante, di marmi chiari e legno scuro e un receptionist dai modi impeccabili, che sbriga in un attimo le pratiche di check-in e ci consegna le schede magnetiche per aprire la camera, augurandoci una buona notte.
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