domenica 20 settembre 2009
Il ministro Brunetta e i musicisti
Da qualche giorno girano su Youtube alcuni video che riportano parti il discorso tenuto a Gubbio dal ministro Brunetta l'undici settembre scorso.
Non voglio entrare nel merito di tutti gli argomenti affrontati dal ministro in quel contesto, ma c’è una parte in particolare che sembra aver suscitato le ire del popolo della rete.
Il primo link che ho incontrato al video del famigerato discorso mi ha molto incuriosita: il titolo era “Cosa sono i musicisti per Brunetta” sottotitolo “Brunetta è matto”.
La prima visione del video mi ha lasciata perplessa, non trovavo corrispondenza tra il titolo e i contenuti del discorso. Allora sono andata a leggere qualche commento sull’argomento, spulciando qua e là in rete, e sono rimasta sorpresa dall’enorme quantità di critiche espresse soprattutto da persone che operano proprio in ambito musicale. Quasi tutti accusavano il ministro di aver classificato tutti i musicisti come fannulloni, invitandoli ad “andare a lavorare”.
Eppure a me non sembrava che il contenuto del discorso fosse questo: forse avevo capito male?
Nel primo video che avevo guardato c’era un taglio molto evidente: ho pensato che forse le accuse di poltroneria ai musicisti potessero essere nella parte eliminata e ho cercato una versione integrale. Ho trovato un video più completo, anche se non posso garantire che sia integrale, ma anche in quello non sono riuscita a capire perché i musicisti dovrebbero avercela con Brunetta.
Il ministro si è scagliato – pesantemente – solo contro gli operatori dello spettacolo che ricevono finanziamenti pubblici attraverso il Fondo Unico per lo Spettacolo, in particolare il mondo della lirica, che quest’anno riceve dallo Stato 199 milioni di euro, e del cinema, a cui vanno oltre 69 milioni di euro; il resto è suddiviso tra prosa (61 milioni), altre attività musicali (51 milioni), danza, attività circensi e Osservatorio dello spettacolo (qualunque cosa sia), per un totale di 397 MILIONI di euro nel 2009 (fonte Ministero dei Beni Culturali).
Secondo quello che ho capito io, nel suo discorso, Brunetta sostanzialmente plaude al taglio di questi fondi pubblici (significa che prima erano ancora più consistenti? accidenti...), accusando i principali destinatari, lirica e cinema, di vivere sulle spalle dei contribuenti ed invitandoli a guadagnarsi da vivere confrontandosi con il mercato, invece di farsi mantenere dallo Stato.
Cosa c’è di scandaloso in questo?
Io penso che non si possa considerare lo spettacolo come concetto fine a se stesso: lo spettacolo si fa per il pubblico e allo stesso modo di qualsiasi altra forma di espressione artistica o culturale, ha un senso solo se interessa e piace a qualcuno.
Quindi, se al pubblico lo spettacolo non interessa – o interessa poco – non c’è motivo di farlo e men che meno di finanziarlo con il denaro dei contribuenti. Se invece ci sono persone disposte a pagare per assistervi, non c’è bisogno di sostenerlo con fondi statali.
Chi produce spettacolo, dovrebbe mantenersi con i proventi di ciò che realizza, oppure trovare un’altra occupazione e dedicarsi allo spettacolo come hobby: chi riesce a realizzare forme di intrattenimento gradite al pubblico potrà farlo come mestiere, gli altri no.
In Italia ci sono migliaia di musicisti, attori, registi, ballerini, scenografi… artisti seri, spesso validissimi, che non hanno mai ricevuto un centesimo dallo Stato e che in alcuni casi riescono a fare della loro arte una professione, ma più spesso lavorano come operai, impiegati, commercianti, insegnanti... e si dedicano alla musica, al teatro o alla danza nel tempo libero.
Mi pare che non sia certo a loro che sono rivolte le critiche del ministro Brunetta, che al contrario ha messo sotto accusa chi riceve denaro dallo Stato per realizzare “prodotti” che non hanno mercato, citando invece come esempi positivi quelli che fanno affidamento solo sul proprio talento e sul proprio lavoro.
In questo sono pienamente d'accordo con Brunetta.
Perché alcune categorie dovrebbero essere sostenute con denaro pubblico mentre tanti altri si devono arrangiare? Perché lo Stato mantiene i teatri lirici e non, per fare un esempio, i gruppi rock?
Forse perché la musica classica, la lirica ed il teatro vengono considerati “cultura”, manifestazioni con una dignità artistica superiore rispetto ad altre.
Ma chi decide che cosa è spettacolo, arte, cultura?
I critici? Gli intellettuali? Gli "esperti"? Gli organizzatori di premi letterari e festival cinematografici, spesso ridotti a passerelle autoreferenziali in cui sempre gli stessi “addetti ai lavori” si presentano di volta in volta in giuria oppure in concorso? La loro opinione vale quanto quella di chiunque altro.
Non può esistere un criterio di valutazione universale per concetti che sono per loro natura soggettivi e variabili nel tempo, quindi non si può definire in senso assoluto cosa sia arte, spettacolo, cultura e cosa invece non lo sia.
Io penso che lo spettacolo dovrebbe mantenersi da solo, senza essere viziato da forme di protezionismo e privilegi.
È giusto che lo Stato favorisca le attività culturali, non in modo settario, finanziandone soltanto alcune, ma promuovendo la conoscenza delle diverse forme espressive, a partire dalle scuole. Trovo ad esempio molto interessanti le rappresentazioni di musica, teatro e danza per bambini e ragazzi che stanno prendendo piede negli ultimi anni, spesso organizzate in convenzione con gli istituti scolastici: sono un ottimo modo per far conoscere ed apprezzare ai più giovani forme di intrattenimento diverse dalla televisione.
Servono più spazi e più strutture per il teatro, la musica e la danza in tutte le loro varianti, classiche e moderne. Non diamo agli artisti uno stipendio, ma la possibilità di esibirsi: se riusciranno ad ottenere l'apprezzamento del pubblico, saranno in grado di mantenersi da soli, altrimenti potranno continuare a dedicarsi allo spettacolo in modo amatoriale.
Vorrei conoscere le opinioni dei diretti interessati su queste mie riflessioni: se tra i lettori di questo blog c’è qualche musicista, attore, ballerino, regista, tecnico del suono o qualsiasi altro operatore dello spettacolo, professionista o dilettante, mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensa. Inserite i vostri commenti!
mercoledì 9 settembre 2009
Viaggio in Islanda – 01. Il viaggio
Ma non importa: conosciamo già la strada fino a Bologna, in realtà il navigatore ci serve solo per raggiungere il parcheggio una volta usciti dall’autostrada, anche se per precauzione ho comunque stampato una mappa.
Ho una certa diffidenza nei confronti dei navigatori, perché spesso gli aggiornamenti software non riescono a tenere il passo con le opere stradali, con ritardi anche di anni rispetto alle modifiche. Per fare un esempio, vicino a casa nostra ci sono due rotonde molto vicine, ma solo la seconda è inserita nelle mappe, l’altra evidentemente è troppo recente (ha “solo” un paio d’anni), e questo provoca non pochi problemi a chi arriva dall’autostrada e deve andare verso Treviso, perché il navigatore indica di prendere la prima uscita alla rotonda e chi fa questa strada per la prima volta esce dalla prima rotonda invece che dalla seconda e si ritrova a imboccare la nostra via anziché la tangenziale. Poco male per gli automobilisti, ma per i TIR è una bella seccatura, perché la strada è senza uscita e non c’è spazio per girare veicoli così grandi, che sono costretti tornare sulla strada principale a marcia indietro.


Siamo in anticipo, il check-in non è ancora aperto, ma sono già indicati i numeri dei banchi per il nostro volo. L’aeroporto non è molto grande e nella zona partenze i posti a sedere sono pochi, ma io ho bisogno di tenere la gamba un po’ sollevata, il viaggio in macchina fa già sentire il suo effetto sulla circolazione, anche se è durato meno di due ore e mezza. Finalmente Renato avvista un sedile libero, io me ne impadronisco, appoggio la gamba sopra a una delle valigie e mi dedico al man-watching, l’osservazione della fauna aeroportuale: è divertente studiare le persone che vanno e vengono, cercando di indovinare qualcosa su di loro.
Molti dei nostri compagni di volo invece si riconoscono proprio dall’abbigliamento insolito per il caldo afoso di Bologna, oltre che dall’abbondante bagaglio: jeans o pantaloni di felpa, scarpe da ginnastica o da trekking e maglioni o giubbotti sottobraccio, probabilmente portati a mano per ridurre il peso delle valigie, enormi e riempite al limite della possibilità di carico, e accompagnate da trolley o zaini straripanti. Chi parte per il mare invece viaggia più leggero: sandali, pantaloncini, canottiere e valigie di dimensioni ridotte.

Interessante, quasi come essere allo zoo.
Con la coda dell’occhio sorveglio i banchi del check-in per il nostro volo, davanti ai quali inizia già a formarsi la coda. Dato che Renato è ancora in piedi perché non ci sono altre poltroncine libere nei dintorni, gli suggerisco di mettersi in coda. Inizialmente ignora la mia richiesta, ritenendola inutile: in aereo c’è posto per tutti; quando però la coda si allunga, gli faccio notare che facendo il check-in tra gli ultimi rischiamo di non trovare due posti vicini; alla fine si rassegna e si mette in fila.

Al piano superiore c’è un fast food, è piuttosto affollato, ma non abbiamo fretta. La ragazza al banco sembra molto stanca e alcuni clienti davanti a noi le regalano un altro po’ di stress cambiando più volte idea sulle cose da ordinare; quando arriva il nostro turno, si confonde e insieme ai tranci di pizza mette nel vassoio patatine fritte al posto delle crocchette che avevo ordinato. Se ne accorge quasi subito e si scusa con uno sguardo disperatamente infelice, pronta a riparare all’errore sostituendo le patatine con le crocchette, ma mi fa davvero pena, probabilmente sta lavorando a ritmi infernali da chissà quante ore, magari con un contratto a termine e uno stipendio minimo, e quelle patatine da buttare via potrebbero significare un rimprovero da parte del suo capo. Le dico che non importa, va bene così, tanto il prezzo è lo stesso; insiste per un attimo, ma la rassicuro, davvero non c’è problema. Mi regala un sorriso pieno di gratitudine prima di passare al cliente successivo; e pazienza se metà delle mie patatine poi finiscono nella pancia di Renato perché non ne avevo una gran voglia.

Finito di mangiare butto giù le mie pastiglie con un sorso d’acqua, poi svuoto le bottigliette che ci eravamo portati da casa, per poter passare i controlli di sicurezza. Bisogna tirare fuori dal bagaglio a mano tutte le apparecchiature elettroniche e metterle nelle vaschette di plastica per l’ispezione ai raggi X: in pratica mi tocca svuotare quasi tutto lo zaino, perché ci sono due macchine fotografiche, la telecamera e il netbook.

Il mio posto è vicino al finestrino, ma la visuale è quasi completamente ostruita dall’ala dell’aereo e comunque ormai è buio, c’è poco da vedere. Mi tolgo immediatamente le scarpe, cercando di prevenire per quanto possibile il gonfiore ai piedi.
Non mi addormento profondamente, durante il volo riapro gli occhi diverse volte per cambiare posizione o controllare l’ora, ma alcuni periodi di sonno sono abbastanza lunghi e ad un certo punto mi trovo davanti una bottiglietta d’acqua senza sapere com’è arrivata; è stato un pensiero gentile di Renato, decisamente opportuno perché ho la bocca asciutta a causa dell’aria secca dell’aereo e bevo volentieri qualche sorso, sorrido a Renato, do un’occhiata all’orologio e mi rimetto a dormire.
Dopo circa due ore di volo, più o meno a metà strada, decido che è ora di fare una passeggiata; mi dispiace disturbare la signora che occupa il posto a fianco a noi e che sta dormendo, ma i miei piedi si sono già gonfiati, ho bisogno di riattivare un po’ la circolazione. Vado avanti e indietro per il corridoio, mi stiracchio, tiro qualche calcio all’aria, mi sollevo un po’ di volte sulla punta dei piedi, poi torno al mio posto per un altro pisolino.
Circa mezz’ora prima dell’arrivo riapro faticosamente gli occhi, questa volta determinata a restare sveglia per non arrivare troppo intontita: l’atterraggio è previsto a mezzanotte e mezza ora locale, ma per noi saranno le due e mezza per via della differenza di fuso orario (l’Islanda nel periodo estivo è indietro di due ore rispetto all’Italia perché non adotta l’ora legale).
Il cielo non è più completamente scuro, ci siamo mossi verso nord, dove le giornate sono ancora lunghe, anche se restiamo al di sotto del Circolo Polare Artico e il sole tramonta per qualche ora.
Finalmente intravedo sotto l’ala dell’aereo qualche spicchio di terra. La prima immagine dell’Islanda mostra più chiaramente di qualsiasi spiegazione cosa significa una densità di popolazione inferiore a 3 abitanti per chilometro quadrato: dopo i grappoli quasi ininterrotti di luci dell’Europa continentale sembra di sorvolare un deserto, con sol qualche occasionale punto luminoso.
Atterraggio morbido, l’aereo si avvicina al terminal e inizia l’agitazione per recuperare i bagagli a mano e sbarcare. Noi restiamo seduti aspettando che gli altri passeggeri inizino a scendere, è inutile accalcarsi per guadagnare pochi minuti.
Questa volta l’aereo è collegato direttamente al terminal attraverso un corridoio mobile e non c’è bisogno di uscire all’esterno. L’aeroporto di Keflavík non è molto grande, bastano pochi minuti per raggiungere la zona di distribuzione dei bagagli e le procedure di scarico sono veloci, aspettiamo solo una decina di minuti per recuperare le nostre valigie.
Seguiamo le indicazioni verso l’uscita, una volta raggiunto l’atrio mi guardo intorno per vedere dov’è la fermata del Flybus, la navetta per Reykjavík. Facilissimo: è proprio davanti all’uscita. Metto il naso fuori con prudenza, per valutare la temperatura: se dovesse esserci troppo freddo sarebbe meglio tirare fuori il piumino dalla valigia. Ma la notte è relativamente tiepida, ci saranno sette od otto gradi, la felpa può bastare, dato che comunque saliremo subito sul bus e scenderemo davanti all’hotel.
Ė ora di rispolverare il nostro inglese, che praticamente esce dalla naftalina solo quando andiamo in vacanza. E si sente…
Tiro fuori dallo zaino la stampa della prenotazione e la mostro all’autista, che mi spiega che devo andare allo sportello per farmi dare i biglietti. Oddio! E dov’è lo sportello? Proprio lì, vicino alla porta, ci ero appena passata davanti senza farci caso. Mentre Renato carica le valigie, vado a ritirare i biglietti, spiegando che dobbiamo scendere all’hotel Hilton (cosa che mi dà una certa aria di importanza…), poi torno fuori e prendiamo posto sul Flybus.
Uscendo dall’area aeroportuale mi colpisce una strana scultura, che sembra composta da pezzi di metallo illuminati da luci colorate. Mi vengono in mente le informazioni lette sulla guida, che descrivono l’Islanda – e in particolare Reykjavík – come fucina di arte moderna e design contemporaneo.
Ci avviamo verso la capitale: la strada è migliore di quanto mi aspettassi, quasi un’autostrada, con due corsie per ogni senso di marcia. Guardo dal finestrino cercando di assorbire le prime impressioni di questo Paese: a sinistra, verso nord, si vede il mare, mentre a destra la luna che fa capolino tra le nuvole illumina un paesaggio quasi spettrale, una pianura piena di piccole ondulazioni e completamente priva di alberi.
Scambiamo qualche parola con una coppia di qualche anno più giovane di noi: si aspettavano di trovare più chiaro, magari non proprio il sole di mezzanotte, ma quasi, invece c’è solo una striscia di celo azzurro cobalto verso nord.
Dopo circa quaranta minuti arriviamo a Reykjavík; so che il nostro hotel è un po’ fuori dal centro, quindi spero che sarà una delle prime fermate. Cerco di orientarmi, ma faccio fatica a seguire le svolte del bus, ho quasi l’impressione che giri in tondo; più volte intravedo la sagoma di un edificio enorme, può essere solo la Hallgrímskirkja, la grande chiesa di cemento che secondo la guida è visibile da venti chilometri di distanza.
La prima sosta è davanti ad uno degli hotel che avevo preso in considerazione come possibile alloggio, scartandolo poi a favore dell’Hilton: mi congratulo con me stessa per non averlo scelto, perché ha un aspetto decisamente più malandato rispetto alle immagini pubblicate in Internet. Ci fermiamo al capolinea dei bus per far scendere una parte dei passeggeri, che raggiungeranno i loro hotel con un veicolo più piccolo, mentre noi restiamo sul Flybus, che riparte, allontanandosi dal centro per qualche chilometro. Sfuma completamente l’ipotesi che la scelta di un hotel prestigioso ci avrebbe dato qualche priorità nella sequenza delle fermate: siamo proprio gli ultimi a scendere, dopo aver lasciato una coppia più o meno sui sessant’anni all’ostello (ma una volta non si chiamavano “ostelli della gioventù”?).

L’hotel si presenta proprio come ci si può aspettare da un Hilton: un atrio elegante, di marmi chiari e legno scuro e un receptionist dai modi impeccabili, che sbriga in un attimo le pratiche di check-in e ci consegna le schede magnetiche per aprire la camera, augurandoci una buona notte.

venerdì 4 settembre 2009
Viaggio in Islanda – 00. L’organizzazione

A luglio ho avuto pochissimo lavoro e molto tempo libero da dedicare alla pianificazione delle vacanze, così ho iniziato a identificare qualche possibile destinazione. Stavo analizzando la Scozia, avevo trovato alcune interessanti proposte di itinerari naturalistici e cominciavo a fare qualche conticino per capire quanto sarebbe potuta venire a costare una vacanza fly & drive, quando Renato ha rilanciato l’idea dell’Islanda. “È sempre la solita storia,” – gli ho risposto – “costa troppo”. Ma lui ha insistito: “Prova a dare un’occhiata”.
Più che altro per accontentarlo, ma senza crederci molto, ho cercato in rete i siti dei tour operators che propongono viaggi in Islanda: ne ho trovati sei e, sorprendentemente, i prezzi, sebbene impegnativi, sembravano decisamente più abbordabili rispetto agli anni scorsi. Una breve indagine su Internet ha svelato il mistero: la moneta islandese ha pagato un tributo pesante alla crisi economica e finanziaria, con una forte svalutazione rispetto all’Euro. Buon per noi.
La prima risposta è stata scoraggiante: proprio l’organizzazione il cui sito web mi aveva colpito più favorevolmente si è dimostrata quantomeno superficiale nella valutazione della mia richiesta e mi ha proposto una settimana a Reykjavík con partenza tre giorni prima dell’inizio delle ferie di Renato. Tutta un’altra cosa rispetto a quello che avevo chiesto. Ho soffocato l’istinto di mandare una rispostaccia e ho gentilmente evidenziato che cercavo qualcosa di diverso e che dovevamo tassativamente restare entro le date che avevo indicato.
Nel frattempo mi è arrivata risposta da un altro tour operator, che proponeva il volo di andata da Linate via Londra e il ritorno diretto su Malpensa. Già meglio, anche se piuttosto scomodo: bisognava lasciare l’auto a Malpensa e prendere lo shuttle per Linate e il prezzo era comunque abbastanza impegnativo, nonostante le sistemazioni in hotel piuttosto spartani.
Un terzo tour operator mi ha proposto il volo da Venezia con scali a Copenhagen, ma la durata complessiva del viaggio diventava di otto ore all’andata e addirittura di ventidue ore al ritorno, con un pernottamento a Copenhagen che poteva anche essere interessante se non ci fossimo già stati qualche anno fa.
Per prima cosa ho verificato il volo: c’erano diverse possibilità di voli con scalo (seconda tabella), ma tutte prevedevano tempi complessivi di viaggio abbastanza lunghi e temevo che le ore in aereo e/o in aeroporto sarebbero state troppo pesanti per la mia gamba. Un’occhiata ai siti delle compagnie aeree che propongono voli diretti dall’Italia a Reykjavík mi ha rivelato che i voli di agosto da Milano erano al completo, ma da Bologna c’erano ancora alcuni posti.
Ho elaborato i preventivi per il noleggio auto dai siti delle principali compagnie, ma anche da quelli delle piccole agenzie locali trovate sul sito dell’ente per il turismo islandese: in tutti i casi erano più convenienti di quelli proposti dai tour operators. Terza tabella.
Ho costruito un itinerario di massima, pescando idee dai cataloghi e dai resoconti di viaggio trovati in rete: quarta tabella.
Poi ho cercato le possibili sistemazioni nelle località in cui era previsto il pernottamento: anche qui, i prezzi sembravano più convenienti rispetto a quelli indicati nei cataloghi e sono finiti nella quinta tabella.



Ormai l’ingranaggio era avviato: ho passato i giorni 11 e 12 luglio a spulciare siti relativi ad alberghi, guesthouse e bed & breakfast, esaminando soprattutto i commenti dei clienti e le fotografie e confrontando i prezzi: sono partita da una lista di 135 possibili sistemazioni fino ad arrivare all’elenco finale di 9 alberghi di buon livello, a tre o quattro stelle (altra tabella…), per ognuno dei quali ho cercato in rete la tariffa più conveniente. A questo punto erano le quattro del mattino, la prima carta di credito era esaurita e per prenotare gli hotel ho dovuto iniziare ad usare la seconda.

Ma la preparazione era ancora ben lontana dall’essere completa…
L’itinerario che avevo preparato doveva essere dettagliato con le cose da fare e da vedere in ciascuna località: avevo bisogno di una guida. E quando si dice guida per un viaggio, si dice Lonely Planet. Avevo già una piccola lista di libri da acquistare su IBS, ho aggiunto la guida e alcuni tascabili da portare in viaggio, approfittando anche di alcuni sconti interessanti e della spedizione gratuita, e ho trasmesso l’ordine.





Sono convinta che un buon programma non sia un vincolo, ma che anzi dia la massima libertà, permettendo di godersi la vacanza senza rischiare di trascurare qualcosa che vale la pena di vedere o di arrivare nell’orario sbagliato o di perdere ore a cercare un posto per la notte. L’importante è non diventare schiavi della tabella di marcia, ma al contrario sfruttarla come strumento flessibile, come una rete di sicurezza in cui però non bisogna impigliarsi, mettendo in conto fin dall’inizio che ci sarà sicuramente qualche modifica, ma che potrà essere gestita in tutta tranquillità avendo già un’idea dei luoghi, delle attività e dei tempi.



Finalmente, dopo tanto lavoro preliminare e innumerevoli tabelle, lunedì 9 agosto dopo pranzo eravamo pronti a partire!